testimonianza scritte
Chiara A. Lanzi curatrice del progetto e direttrice del Museo Gipsoteca Giulio Monteverde
Un dialogo
Assunto: “Degli stampi perfetti vibrano con un ritmo costante dando origine a calchi eguali, essenza di se stessi. Tali calchi, ondeggiando, mutano gli stampi in altri calchi; cosicché gli stampi diventano calchi e i calchi diventano stampi. Senza soluzione di continuità”.
L’assunto lo trovate in sala III, accanto al braccio di Norma (per il gruppo del Bellini, inaugurato a Catania nel 1880) che pare abbia fatto dannare per mesi il Monteverde, mai persuaso della veridicità di quel gesto troppo teatrale.
E’ stato inciso con il bisturi durante il workshop su una velina da 6 grammi che ondeggia senza sosta a ogni passaggio… qualche dannazione si è sentita anche durante il workshop...
Poi lo trovate altre 4 volte, in sala V e in sala VI: 2 stampi e 2 calchi, in terra e in gesso, realizzati sempre durante il workshop con le tecniche dello spolvero e dell’incisione. Posti ai piedi di opere fondamentali nella carriera del Monteverde, come l’Angelo Oneto e Idealità e Materialismo, questi assunti rigidi e speculari sembrano lapidi matrimoniali.
Nell’approccio teoretico (che sempre si accompagna dialetticamente alla prassi operativa nel percorso artistico di Didymos) questo assunto può essere inteso come “possibilità logico-pratica” per dubitare di una tesi con la quale tutti abbiamo avuto e avremo a che fare, sui banchi di scuola e oltre: ricordate le idee di Platone? Immutabili, perfette, prive di forma e dimensioni, risiedenti nell’Iperuranio? Le quali generano cose mutevoli, imperfette, in divenire e mutamento, collocate nella realtà mondana? Ricordate il demiurgo “scultore” di idee?
“Il concetto platonico delle idee come stampi originari perfetti, dai quali vengono generati molteplici calchi imperfetti, le cose, genera una relazione a senso unico che non permette di raggiungere lo stampo originario attraverso il calco, in quanto impreciso”.
L’assunto – dicevamo – può dubitare di questa tesi: è Il principio del dubbio che, con l’intenzione di Addestrarsi al fallimento, costituisce titolo e sostanza del lavoro di Didymos in Museo ed è estensione di una più ampia ricerca d’arte iniziata nel 2015 e denominata Tentativo di Dubbio.
C’è già molto in queste prime righe (molte vibrazioni): un assunto con valenze teoretico-pratiche, un workshop, un ripasso di filosofia, parole sdrucciolevoli come “dubbio”, “tentativo”, “fallimento” e del lessico tecnico piuttosto complicato.
Partiamo proprio da qui perché nelle tecniche scultoree tradizionali il gergo è assai specifico e colorito (chi di voi – tanto per dire - ha mai sentito parlare di “loto” ad di fuori delle pratiche New Age? Oppure di “concolino”? O di “materozza”?): per “stampo” intendiamo una forma in negativo (tratta da un positivo) e per “calco” una copia in positivo ricavata da uno “stampo”.
Nell’assunto si parla quindi di negativi e di positivi (tratti da negativi).
Ma non manca qualche cosa? Dove sono i positivi originari, ovvero gli “originali”? Mi viene il dubbio che avesse ragione Platone...
Va detto che calco e originale son tra le parole più ambigue e antipatiche in una gipsoteca: noi curatori di gipsoteche talvolta ce la prendiamo molto a cuore quando i visitatori dicono che «da noi ci sono calchi».
- «Ma che calchi e calchi, signora!? Da noi ci sono modelli originali in gesso!»
- «Ma… mi perdoni...» - ribatte confusa la gitante - «non mi aveva appena spiegato che sono pur’essi calchi tratti da un modellato in creta?»
- «Ma allora Lei è più dura di un blocco di Candoglia! Certo! Anch’essi son calchi… Ma che calchi! Calchi per eccellenza! Nobili! Originali!»
Oppure: - «Perdoni… Mi sorge spontanea una domanda: ma dov’è l’originale in marmo?»
- «Come scusi? Non ho capito bene...»
- «… L’originale in marmo...» - ripete sommessamente l’infelice turista.
- «Ma è possibile che abbiate tutti in testa sempre e solo Charlton Heston?! Senta, caro signore: esca dal mio museo e vada a visitare una pinacoteca, se proprio vuol farsi una cultura! Originali sono i gessi! I marmi sono trasposizioni! Magari sublimi, ma pur sempre trasposizioni di gessi».
Ma mettiamo da parte i problemi attinenti le intemperanze comunicative dei curatori di gipsoteche e torniamo all’assunto: il collettivo Didymos già ci aveva lavorato precedentemente, in una fase di Tentativo di Dubbio classificata come Assunto n. 6 (A6) del Capitolo n. 1.
Abbiamo voluto riproporre questo “esperimento installativo” nel loggiato del Museo, a introduzione della visita: su un tavolo è appoggiata una radiolina anni ‘80, scoperchiata, che non trovando le frequenze giuste emette scariche costanti (le vibrazioni); poi ci sono 23 cilindri cavi di vetro e di cera (gli stampi e i calchi, indistinguibilmente) di sezioni differenti, che si susseguono in file parallele, dai più grandi ai più piccini: vetro contiene cera, cera contiene vetro; vetro contiene vetro; vetro segue cera; cera segue vetro, vetro segue vetro, cera segue cera.
(Non l’ho mai detto a Didymos , ma questa sequenza che mi piace tanto mi ha sempre fatto venire in mente un possibile modello schematico in miniatura per quel maestoso teatro della conoscenza che è la Grande Galerie de l'Évolution del Muséum National d'Histoire Naturelle di Parigi)
Cosa accade se analizziamo l’assunto alla luce di questa sequenza?
“Nello scontro con la materia, il tentativo fallisce nell’impossibilità di essere un processo infinito: il tubo cessa infatti di essere cavo nel momento in cui la sua sezione diminuisce di misura”.
L’assunto, quindi, fallisce nell’impossibilità di essere un processo infinito.
Il fallimento dell’antitetico assunto porterà quindi nuovamente in auge la tesi platonica?
Nel dubbio (e come potrebbe essere diversamente?) vediamo - passo dopo passo - come Didymos ha lavorato sull’assunto specificamente in Gipsoteca (site-specific come si dice nel gergo chic dell’arte contemporanea).
1° PASSO
Da ottobre 2018 a febbraio 2019 le artiste hanno sfidato il freddo, passando intere mattinate o pomeriggi in Museo (riscaldamento al minimo, per opportunità conservative) per interrogarsi sui modelli in gesso e prenderne accurate misure.
Un po’ alla volta l’attenzione di Didymos ha finito per concentrarsi su 3 gessi.
Il 1° è il Giacomo Moresco, in sala I, che ai visitatori poco avvezzi spesso suscita ilarità perché sembra un nanetto senza testa: in realtà è il modello “terzino”, ovvero grande 1/3, per il marmo definitivo che si trova a Genova, all’Istituto Doria di via Stuppa, e che raffigura un ricco commerciante e benefattore cittadino. Il piccolo gesso ha perso la testa per via di complicate e oscure vicende patite tra gli anni Venti e gli anni Ottanta del Novecento, quando la collezione monteverdiana fu “ricoverata” in sedi genovesi di fortuna come la Chiesa sconsacrata di Sant’Agostino.
Il 2° è l’angelo che, nella versione marmorea del Cimitero monumentale della Certosa di Ferrara, ancora custodisce la salma scolpita del defunto Conte Massari. Il gesso, in sala II, è completamente sfigurato nel volto da una presumibile caduta avvenuta allorquando – sempre presumibilmente - addetti del Comune di Genova presero a martellate cadavere e catafalco che - nella penombra della chiesa di Sant’Agostino - dovevano mettere tanta paura da formulare ogni sorta di scongiuri.
Il 3°, in sala VII, è quanto resta del cavallo enorme sul quale monta quanto resta di re Vittorio Emanuele II. Il bronzo gigantesco tratto dal modello rimase in Piazza Maggiore a Bologna, a sfidare San Petronio, fino al 1943, per poi essere comprensibilmente caricato su un carro e portato in “periferia”, ai Giardini Margherita. Fino agli anni Cinquanta il gesso era tutto intero, ma essendo collocato nella “Fortezza” di Sampierdarena adibita a scuola e temendo – come appare perfettamente logico - per l’incolumità degli alunni si decise di distruggerne tutta la parte inferiore (le zampe, i fianchi, le natiche, la groppa, il dorso, il petto e finanche le gambe del monarca).
(Che senso di disagio, di imbarazzo, di vergogna atavica nell’elencare, così di seguito, tutte queste impietosità...)
Insomma, la scelta di Didymos è stata inesorabilmente calamitata da quei modelli in gesso con evidenti, inequivocabili, macroscopici, madornali segni di lacuna (beninteso: tante altre sono le lacune in Gipsoteca, tutte determinate da quelle infelici vicende conservative sopraddette, ma son più “sottili” e difficili da individuare). Perché questa inesorabile scelta?
Perché il fallimento è uno dei presupposti della ricerca di Didymos; e “fallimento nasce dalla mancanza, dalla falla, dall’assenza di qualcosa, dall’andare verso qualcosa. Non ha mai un carattere frustrante nella prassi di Tentativo di Dubbio. Il fallimento sviluppa una forza contraria, nel tentativo di colmare quella fenditura”.
Perché le lacune ci catapultano spietatamente nel dubbio: nel senso che sono “accidenti/incidenti” che – per certi versi - fanno sì che il modello originale in gesso non possa più essere considerato “originale”; nel senso che, in un processo a ritroso, una copia integra (quale una ben conservata trasposizione in marmo, per fare un esempio) non potrebbe più rispecchiarvisi.
Roba che potrebbe negare la tesi platonica e pure l’antitetico assunto! Roba da “tirar giù dai piedistalli” le opere del Museo e da mandare completamente in tilt noi conservatori di gipsoteche e le nostre intemperanze comunicative…
2° PASSO
A luglio, nella prima quindicina, le artiste – sempre in Gipsoteca - hanno condotto un workshop: la pratica collettiva è benvoluta da Didymos perché tante teste e tante mani moltiplicano gli accidenti, aggiungono dubbi, tentativi e fallimenti.
Al workshop sono stati accolti 4 artisti/ricercatori: Jaspal Birdi, Gualtiero Caiafa, Silvia Calvi e Giuseppe Mongiello cui ci siamo aggiunti - in modalità ondivaga, ormai pienamente in preda alla crisi - noi della Gipsoteca.
Ai partecipanti è stato chiesto di copiare, modellando in creta, parti dei tre tragici gessi selezionati, ma dimenticandosi completamente di una condotta “scolastica” che avrebbe probabilmente messo in atto un’intenzione compensativa delle lacune; dimenticandosi pure - possibilmente - di stare in un Museo e di avere nozioni di storia dell’arte, iconografia, tecnica accademica; dimenticandosi “Giulio Monteverde e il suo Ottocento, le tendenze simboliste, le figure allegoriche, i personaggi raffigurati”.
Il lavoro sulle opere più deturpate ha aiutato a “mettere tra parentesi” tutto ciò per concentrarsi sulle loro forme e sul loro complesso strutturale, con la finalità di avere un modellato il più possibile fedele all’originale, per ottenere successivamente uno “stampo perfetto” e mettere così alla prova l’assunto.
Dopo che il modellato ha preso forma riproducendo (fenomenologicamente) anche lacune, rotture/brutture, incidenti/accidenti, ne son stati meticolosamente tratti stampi negativi a tasselli (24 tasselli solo per un pezzo di coda del cavallo!) che hanno messo alla prova, nel caldo torrido di quest’estate, la fermezza di ognuno.
3° PASSO
Al termine del workshop Didymos ha proseguito il lavoro nel proprio atelier: la prassi (ricordiamoci) mai disgiunta dalla teoria, ha assunto varie strade, dispiegando stampi e calchi con materiali e approcci estranei alla tecnica scultorea ottocentesca e, talvolta, con dei veri e propri paradossi scultorei.
In questa fase si è infatti definitivamente “messa tra parentesi la scultura”; si è cambiata la sua “intenzione” pensando ad essa senza la finalità di produrre una scultura. La finalità era semmai la prassi stessa nel tentativo di risolvere l’assunto.
Perché con una prassi scultorea che non produce scultura, ma rimane prassi, “la concretezza della scultura può trascendere in se stessa spostando il suo significato verso altro da sé”.
Analizziamo alcuni tentativi (tra i tanti possibili) di questo lungo e meticoloso processo, colmo di dedizione, fatica e pazienza.
In sala I il pacco ben imballato e pronto per la spedizione del commerciante Moresco, decontestualizzato dall’approccio fenomenologico con cui è stato visto e modellato, ha generato uno stampo (in negativo) e un calco (in positivo) di gesso.
Il distacco tra stampo e calco non è stato agevole e il negativo si è rotto in più punti.
Il fallimento è divenuto la base delle azioni successive: le fratture del negativo sono state calcate con argilla che, a sua volta, ha generato un branco di negativi in gesso; poi sono state colmate con foglia d’oro, come succede nell’antica tecnica giapponese del kintsugi che utilizza un metallo prezioso per riunire i pezzi di un oggetto di ceramica rotto, volendo evidenziarne i traumatici trascorsi anziché nasconderli, in un approccio filosofico e pratico che, potenzialmente, ci dona anche molti insegnamenti etici ed estetici.
Dalle falde della giacca di Moresco, modellate in creta e volte in stampi a tassello, si è generata una serie di calchi positivi in lattice, ognuno leggermente diverso dall’altro per via dello spessore.
Dopodiché, al calco è stato negato il proprio ruolo di copia perfetta, così come all’elasticità del lattice è stata negata la propria potenzialità funzionale al processo scultoreo, ed è subentrata un’intenzione del tutto paradossale: sistemate in maniera scomposta (spiegazzate, ritorte, appallottolate, proprio come fossero davvero di stoffa), le giacchettine in lattice sono state a loro volta impresse nel gesso, generando negativi dai quali son stati tratti altri positivi in lattice che hanno subito lo stesso processo, in una serie (potenzialmente infinita) di citazioni sempre più irriconoscibili dell’abito del ricco commerciante genovese.
In Sala II lo sfigurato Angelo Massari, non essendo più certo di essere “originale”, guarda il calco di sé stesso riflettendo sullo stampo a tasselli che lo ha generato. Questo ha anche generato un calco in cera, scoperchiato nella nuca dai fallimenti accaduti nell’operazione di distacco dal gesso.
Ma (già lo sappiamo bene) “il fallimento non ha mai un carattere frustrante nella prassi di Tentativo di Dubbio” e così il processo non si è fermato e la cera è diventata la forma per un calco/maschera in lattice che, più e più volte, di nuovo sfruttando l’elastico paradosso della materia, è stato riempito di malta cementizia dando origine a sempre più deformi teste angeliche.
La sezione di coda del cavallo di Sala VII ha originato, attraverso i 24 (!) tasselli dello stampo, diverse copie fallimentari: l’argilla bianca colata nello stampo, a seconda dello spessore dato, si è risolta in calchi frantumati un po’, molto e moltissimo. L’addestramento al fallimento, in questo caso, è consistito nell’esporli in mostra.
A fianco è esposto anche un assurdo cambio intenzionale all’iter scultoreo tradizionale: nella negazione di ogni distinzione funzionale e gerarchica tra cassaforma, stampo e calco, si è fatto un calco alla parte esterna dei tasselli, quella che sta faccia a faccia con l’interno della cassaforma contenitiva; e, massimo del paradosso, si son prodotte altre due copie in gesso della cassaforma che se ne stanno in bella mostra di sé vanitosamente cosparse di uno strato blu sbiadito (la “camicia blu” di sicurezza, che Canova voleva di quel colore per conferire più algido neo-classicismo ai suoi gessi, qui scherzosamente allusiva all’apporto teoretico che, in Didymos - ormai lo sappiamo a memoria, sempre si accompagna alla pratica).
La sensazione - a mostra allestita e ben illuminata, a museo riordinato e ripulito – è che una vibrazione sottile e continua (una specie di ultrasuono) attraversi la Gipsoteca, che qualcosa – nel silente rigore quasi chirurgico delle installazioni - sia pronto a espandersi in mille nuovi tentativi.
Proviamo a rileggere l’assunto: “Degli stampi perfetti vibrano con un ritmo costante dando origine a calchi eguali, essenza di se stessi. Tali calchi, ondeggiando, mutano gli stampi in altri calchi; cosicché gli stampi diventano calchi e i calchi diventano stampi. Senza soluzione di continuità”.
Sì: secondo noi funziona!
Giuseppe Mongiello artista partecipante
assunto = matrice assunta
proporzioni di assenza
essenza multi verso.
Tentativo di Dubbio evoca se stessa, è la tautologica necessità dell’arte,
detta povera per non lasciare dubbi.
Fare in modo che i dubbi alimentino humus di certezze, ipotetiche.
Quanto è calda la ragione, che è detta infatti diabolica, divide gli interi per spiegarli.
Scomporre per ricostruire simili forme nello spazio.
Togliere materia dallo spazio, farlo entrare dove l’occhio non può.
Sviluppare una effimera tesi, sull'antitesi descritta nell’assunto,
conclusosi il processo di tripartizione divina delle forme riflesse,
prima che esistesse lo specchio, diviene una dolce riflessione sul meditato.
L’ ESTetica del senso viene dall’est, ti sveglia all’alba perché è calda,
la luce nello spazio fa il tempo,
il tempo fa della luce lo spazio,
lo spazio è la luce del tempo.
L’artista è chiamato alla mimesis e ancora non esistono gli specchi:
il tentativo di epochè diviene un conflitto con la luce inesauribile che custodiamo nei sogni,
che non è prodotta da nessuna combustione.
Condannati all’esperienza estetica, corpi scolpiti, diciamo l’universo nostro simile.
Attraverso una teogonia dell’assurdo per abbracciare l’assunto l’ho messo fra parentesi,
le parentesi sono le sue parenti più strette, matrice e assunta, divinità delle forme.
Queste si sono strette, a tenaglia nel tentativo di ridurre lo spazio e il tempo in modo che la luce non potesse giungere a modificare una certa idea di forma, la matrice assunta.
L’idea della forma rivela il suo carattere divino, e transita nelle materie come principio trinitario, infinita è la sua natura.
il logos dell’assunto è infinito.
scolpitasi la matrice, 1+1=3, la creazione genera, anche controllata dalla ragione,
regioni di entità metafisiche.
La copia in creta di un panneggio in gesso evoca delle pieghe, queste si dispiegano come pieghe stirate, dalle forme il vapore è assunta. le pieghe in creta si sposano con altre in gesso, insieme sudano l’assunta, gli stracci umidi li ricoprono per permettergli di continuare a non riconoscersi e non separarsi.
Eco, priva della vista e Narciso, privo dell’udito, si inseguono, senza esaurirsi grazie all’assunta che evapora, esala e ne immobilizza la loro esperienza estetica
Qualsiasi panneggio conduce all’icona, senza volto, le vesti per inerzia cadono
qualsiasi velatura è Iside
qualsiasi texture è divina, assoluta come l’assoluto, in contemporanea vive e muore.
assunto = matrice assunta
proporzioni di assenza
essenza multi verso.
Tentativo di Dubbio evoca se stessa, è la tautologica necessità dell’arte,
detta povera per non lasciare dubbi.
Fare in modo che i dubbi alimentino humus di certezze, ipotetiche.
Quanto è calda la ragione, che è detta infatti diabolica, divide gli interi per spiegarli.
Scomporre per ricostruire simili forme nello spazio.
Togliere materia dallo spazio, farlo entrare dove l’occhio non può.
Sviluppare una effimera tesi, sull'antitesi descritta nell’assunto,
conclusosi il processo di tripartizione divina delle forme riflesse,
prima che esistesse lo specchio, diviene una dolce riflessione sul meditato.
L’ ESTetica del senso viene dall’est, ti sveglia all’alba perché è calda,
la luce nello spazio fa il tempo,
il tempo fa della luce lo spazio,
lo spazio è la luce del tempo.
L’artista è chiamato alla mimesis e ancora non esistono gli specchi:
il tentativo di epochè diviene un conflitto con la luce inesauribile che custodiamo nei sogni,
che non è prodotta da nessuna combustione.
Condannati all’esperienza estetica, corpi scolpiti, diciamo l’universo nostro simile.
Attraverso una teogonia dell’assurdo per abbracciare l’assunto l’ho messo fra parentesi,
le parentesi sono le sue parenti più strette, matrice e assunta, divinità delle forme.
Queste si sono strette, a tenaglia nel tentativo di ridurre lo spazio e il tempo in modo che la luce non potesse giungere a modificare una certa idea di forma, la matrice assunta.
L’idea della forma rivela il suo carattere divino, e transita nelle materie come principio trinitario, infinita è la sua natura.
il logos dell’assunto è infinito.
scolpitasi la matrice, 1+1=3, la creazione genera, anche controllata dalla ragione,
regioni di entità metafisiche.
La copia in creta di un panneggio in gesso evoca delle pieghe, queste si dispiegano come pieghe stirate, dalle forme il vapore è assunta. le pieghe in creta si sposano con altre in gesso, insieme sudano l’assunta, gli stracci umidi li ricoprono per permettergli di continuare a non riconoscersi e non separarsi.
Eco, priva della vista e Narciso, privo dell’udito, si inseguono, senza esaurirsi grazie all’assunta che evapora, esala e ne immobilizza la loro esperienza estetica
Qualsiasi panneggio conduce all’icona, senza volto, le vesti per inerzia cadono
qualsiasi velatura è Iside
qualsiasi texture è divina, assoluta come l’assoluto, in contemporanea vive e muore.