TENTATIVO DI DUBBIO
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concept
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​Un tentativo di premessa 
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​Per parlare della terza fase della ricerca Tentativo di Dubbio si potrebbe partire da un grafico, l'hockey stick di Michael Mann. Quell’immagine, proveniente dagli ormai lontani anni '90, fece nascere non poche controversie tra gli scienziati. Poneva la nostra specie di fronte alla voragine del dubbio e della krisis, mettendo in discussione l'agire umano, creando un infinito dibattito intorno all'allora neologismo "Antropocene". Un vero e proprio momento di scelte. Il collasso di fronte agli occhi. 
Si trattava e si tratta tutt'ora di prendere una posizione al riguardo o almeno tentare di farlo (sempre ponendosi nella dinamica de-cronicizzante del dubbio trascendentale come espediente), in relazione a un problema, di natura filosofica, etica e sempre più politica. È una questione che riunisce tutte le materie di studio dell'umano e che costituisce un unico pensiero sull'essere e sull'agire. 
Quello che la letteratura scientifica del clima chiama global warming è ciò che, anche in altri termini, colloca ogni vivente in una condizione di fragilità visibilmente comune e in stato di ipotetico assetto; per poterne cogliere la sua datità occorre mettersi in una relazione estatica rispetto al proprio sè e al mondo.

Quel grafico parla chiaramente di una condizione dell’umanità ai bordi di un baratro antropologico, e non si tratta solo di alterazione del clima, soglia della temperatura globale e parti per milione di Co2, che sono solo alcuni dei sintomi misurabili. Si tratta di comprendere il problema in maniera olistica osservandolo come: amnesia dell’azione, a-storicità dell'esserci, rapporto negato con i vissuti del sé e dell’altro, da-sein disturbato, deficit energetico che relega l'ente al solipsismo malato, regressione della coscienza che compromette l'interazione sociale.
Corpi privi di coscienza, che sono ma non sanno di essere. Il problema e il discorso intorno alle apocalissi culturali, muove la volontà dell'artista a lavorare sull’esercizio della performance, in un processo senza fine né soluzione, per tentare una centratura nel reale, nel proprio essere ente in carne ed ossa, in prossimità dell’altro e nell’altro, in una dimensione singolare che è plurale. È così che la phonè sembra diventare un possibile focus di lavoro e apertura alla prossimità. La risonanza del sé nell’altro attraverso la propria matrice vocale, nomina lo stesso ente nel suo esprimersi parergonale (parergon), in una coincidenza di apparire e apparenza, in un rapporto di somiglianza e nel nostos del noto. Esso stesso diventa atto di conquista della presenza, lavoro, nella sua accezione fisica, ovvero ciò che mette in campo lo scambio di energia e l'impiego di una forza; in una dinamica interiore/esteriore, individuale/collettiva nel tentativo di non fallire, attraversando il thauma del non poterci più essere.
TdD_una pratica collettiva tenta un atto di sopravvivenza mediante un’autopoiesi condivisa.
Un tentativo che è tensione pratica del fare e del dubitare, senza presunzioni né pretese di verità, impossibili da cogliere.
TdD è, in nuce, un disporsi al contemporaneo senza lasciarsi trascinare dall’incoscienza involontaria e dai processi paralizzanti e mono-direttivi, dogmatici e mancanti di approcci critici. TdD nasce dalla speranza del dubbio come fenomenologia del fare, come atto di resistenza nel mondo contemporaneo, ponendosi ai limiti rischiosi di presenza e crisi di presenza; dando valore e centralità al filo delicato, prezioso e vitale delle relazioni, in un continuo rimando ontologicamente necessario all'essere. Un lavoro sul lavoro che è esso stesso telos della ricerca.


Didymos, in Team con gli artisti che hanno partecipato a TdD_ capitolo 2, proporrà la propria modalità di ricerca a chi di arte non si è mai occupato. 
Tentativo di Dubbio è innanzitutto un approccio, ed è questo l’elemento primario del quale si vorrà far fare esperienza a chi prenderà parte al lavoro condiviso

.Tentativo di Dubbio_una pratica collettiva, ha  la volontà di uscire dai luoghi deputati all’arte contemporanea, per entrare in connessione più profonda con la società, alla quale si rivolge e verso la quale si affaccia. Nel suo movimento di apertura della pratica artistica, il progetto ora si pone come obiettivo di attraversare luoghi che non nascono come spazi istituzionali per l’arte, ma piuttosto come spazi di sperimentazione socio-culturale-politica, nei quali incontrare un tessuto sociale specifico e non elitario.



2° premessa .Oltre La fine del mondo
un percorso demartiniano

Gli ultimi studi di E. De Martino; frammentari, discontinui e in forma di appunti e citazioni, si sono interrotti a causa della sua morte. Il metodo di ricerca attuato da De Martino è aperto, ancora in pontenziale, teso tra analisi antropologiche e psicologiche che indagano le apocalissi di natura collettiva e individuale. Tale modus diviene oggetto stesso di interesse e sperimentazione, non solo i contenuti, ma la modalità con la quale vengono appresi, diventa parte del lavoro, approccio attivo, mutevole, fluido, capace di inquietare e suscitare dubbi; un esercizio.
Cosa rimane di questi studi? Un’indagine sull’esser-ci, sul sistema di tecniche culturali di carattere collettivo che è posto al servizio della presenza umana. Una metodologia fenomenologica puntuale sulle connessioni tra l’individuale, il collettivo e i loro confini.
TdD_una pratica collettiva riprende in mano questi studi interrotti e incompiuti per farli strumento di riflessione teoretica e ontologica, poi prassi, di natura creativa. Tentando di trasformare la crisi in minaccia di crisi e attivando processi di reintegrazione grazie alla mediazione dell’atto poetico. L’atto poetico si fa veicolo, metodo, esercizio non finito di determinazione del proprio essere nel mondo. La pratica performativa tenta un processo di strutturazione della presenza che trova nel corpo, nella voce e nel fare stesso la sua esplicitazione.
È così che il corpo dell’attuante e la phonè si riconoscono come luogo cruciale della presenza; ed è in questo luogo che l’universalmente umano assumerebbe concreta forma storica. Questa consapevolezza nell’atto performativo è successiva ad un atto di epochè, di messa fuori circuito delle conoscenze pregresse alla quale segue un processo di svuotamento dell’essere, un farsi canale, un atto di kenosis, uno svuotare il sé per riempilo dell’altro da sé.


L’apocalisse, percezione della finitezza e crollo dell’umanità e della singolarità è abdicazione del soggetto rispetto al tessuto culturale di cui si sostanzia. Il delirio da apocalisse riconosciuto sia in stati i delirio psicopatologico del singolo che nelle intenzioni che muovevamo le pratiche rituali,
è una forma di conquista della presenza. La fine del mondo è il disfacimento del nostro esser-ci nel mondo, la catastrofe del mondano, la perdita del proprio centro.
Lo stato delle cose del contemporaneo, muove riflessioni che richiedono l’accettazione del problema legato alla percezione di sé nel mondo e del proprio stare e convivere con l’altro.
Nell’era dell’Antropocene, denominata e percepita come tale da un piccola parte di umanità, quale futuro può avere l’individuo apatico e privo di strutture culturali e rituali?
Come avrebbe risposto E. De Martino al contemporaneo?
TdD attraverso un approccio trascendentalmente dubitativo, aperto e vigile, attraversa tale questione, cercando risposte nella pura prassi e nella concretezza dello stare comunitario, per tornare/andare verso “le cose stesse” attraverso la verifica del tentativo.
Avvicinando e rifuggendo la paura della fine.  



​Praxis per una fenomenalità del parergon
un percorso meazziano

appunti e citazioni da C. Meazza
Come pensare la prossimità dell'uno con l'altro?
Come mostrare quel tratto in cui si apre la nostra prossimità quando siamo tra-noi?

(...)La semplice relazione dell'uno all'altro cela qualcosa di decisivo di questa prossimità. Per questo un'etica della relazione è insidiosa e del tutto insufficiente a mostrare questa prossimità del tra-noi. Così pure un'etica dell'altro andrebbe recuperata dall'immensa retorica con cui circola da molti anni. (...) Interroga l'altro e la relazione nel momento in cui una datità diventa convertibile con un terzo né mio né tuo. Non c'è prossimità se un terzo non è altro dall'uno e dall'altro. Si cerca di mostrare come la convertibilità del terzo e del dato nomini il reale e costringa a pensare il reale come l'evento stesso dell'apertura del tra-noi. Il lungo percorso del saggio sul tema del parergon solo in apparenza rimanda a un'estetica dell'ente. Il vero interesse è sulla formalità o fenomenalità del dato. Vi sarebbe sempre una parergonalità come evento dell'ente laddove una differenza ontologica è portata al suo massimo estremo(diacronica). Laddove è costretta e reincontrare l'ente in quanto ente, l'ente come nient'altro che ente. Un'indagine sulla necessità di questa singolare conformazione e il suo rapporto immanente con la nozione tradizionale di sostanza, di forma o eidos. In questa formalità il legame del tra-noi e l'emergenza stessa della prossimità trova la sua occasione.(...)



Performatività parergonale
gli esercizi sulla fenomenalità dell’ente che si rivela a se stesso e all’altro

Parèrgo s. m. [dal lat. parergon, gr. πάρεργον, comp. Di παρα- «para-2», per indicare aggiunta, e ἔργον «opera»] (pl. -ghi), letter. ant. – Aggiunta accessoria che si fa, per abbellimento, a un’opera letteraria o figurativa; digressione: per dirvelo alla greca, noi facciamo troppi p., cioè usciamo troppo spesso di proposito (Varchi). Anche, aggiunta, appendice a un’opera (e in questo senso fu usato anticam. il plurale anche come titolo, spesso nella forma greco-latina parerga).
Def. Vocabolario Treccani


La definizione da volabolario del termine parergon o parerga non restituisce pienamente la sua complessità esercitata nella fenomenalità reale. La parola parerga si riferisce infatti ad un complesso di atti costitutivi intenzionali dell’essere che si manifestano nell’esercizio continuo dello stare, dell’esserci dell’ente e della sua coesistenza con l’altro da se e il terzo dell’altro.

La traduzione letterale dal greco della parola parerga fa riferimento al margine. Una bordatura che fa spessore. La parergonalità si definisce nel tentativo più estremo della fenomenologia, la coincidenza tra l’apparenza e l’apparire, la pura datità, la quale non si presenta nel medium di un rappresentante. Il parergon è un generatore di spazi tra gli enti che si definiscono senza appropriazione, senza una delimitazione solipsistica ma nella fenomenalità della coesistenza. Il parerga è una bordatura permeabile attraverso la quale si spartisce una condivisione. Un sentire in cui l’altro può trovarsi al mio posto.

La parergonalità è momento intransitivo che si esaurisce ed esercita in maniera peculiare nel performare dell’attuante, il quale attraverso un atto di decentarmento e messa tra parentesi del proprio e delle conoscenze pregresse, cerca, lavora e trasforma gli spazi nel fare comune, nella condivisione della prassi che è lavoro su se stessi e con l’altro da sé.
Nell’atto performativo di un essere-in-comune la commozione di una lacrima diventa il comune del tra-noi “che si espone e si attesta in un soggetto deposto dalla possibilità di una maschera” C.Meazza cit.
La lacrima, in questo contesto è atto di deposizione del proprio in un terreno collettivo.
Mentre lo sguardo di un attuante verso l’altro non sarebbe tale se non riguardasse proprio l’altro di fronte a se, che chiama colui che si ha di fronte, nel quale ci si versa e si diventa come vasi comunicanti seppur delimitando l’io e l’altro.
Lo sguardo e la lacrima definiscono dapprima la coesistanza tra la dieade nel trascendimento del solipsismo soggettivo e in secondo luogo la deposizione della diade nell’atto della con-divisione con il terzo del volto.
In tale territorio performativo l’io va verso l’altro/gli altri, che è/sono la fonte. 



​Il canto
phonè e spaziatura dell'im-proprio

«[...]solo nel momento in cui si diventa capaci di donazione si apre l'animazione intenzionale [...]»
C. Meazza,
L'effetto del reale e la prossimità del tra-noi

Fenomenologicamente io mi trovo di fronte all'altro, alla verità dell'altro da me, che mi nomina nell'atto dell'incontro, nella notorietà comune dell'esserci come ente. Si tratta di una fenomenalità che vela svelando.
La phonè è ciò che più unisce (l'interno e l'esterno dell'essere) e separa l'uno dall'altro nel creare una spaziatura dell'im-proprio., ciò che non è né mio né tuo. Solo in questa fenomenologica intenzione separante e comune, solo nella datità del mondo che si apre nella sua alterità da me e da te, io e l'altro possiamo autenticamente incontrarci.
La parergonalità, velatura che borda l'ente, conduce e dichiara questa alterità del mondo reale, la presenza dell'essere diventa tale, nell'esser-ci, di fronte all'altro.
E il parergon, nella concretezza della presenza, del sé di fronte all'altro che sono pronto ad incontrare, senza difese, concorre all'effetto del reale. È ciò che diviene necessario al nominarsi comune in una distinta con-divisione della datità; nel quale si ritrova il primato dell'ousia.

«[...] E sostanza [οὐσία] è il sostrato [ὑποκείμενον], il quale, in un senso, significa la materia (dico materia ciò che non è un alcunché di determinato in atto, ma un alcunché di determinato solo in potenza, in un secondo senso significa l'essenza e la forma (la quale, essendo un alcunché di determinato, può essere separata con il pensiero, e, in un terzo senso, significa il composto di materia e forma [...]»
(Aristotele, Metafisica, VII, 1042a, traduzione di G. Reale)

La phonè/parergon dell'ente dunque, si manifesta in quanto generatrice di spazio condiviso tra il sé e l'altro, è in questo modo che il mondo sorge come fenomeno: eidetico, noematico e concreto; nella sua fenomenalità distesa diventa disposizione. Nello spazio dell'im-proprio si libera una rappresentazione della datità come esteriorità inappropriabile, è così che, stando nel canto, nella phonè con-divisa con l'altro, nel flusso impressivo del sentire il mio corpo vivente (gli impulsi che muovono il corpo nel canto, le risonanze del canto nella struttura ossea, muscolare, articolare e la vibrazione degli organi interni) il sentire dei sensi fa segno nel segnale dell'altro.
Spogliandomi di ogni sovrastruttura, vado verso l'altro che sono pronto ad incontrare, che non ha e ha paura di guardarmi negli occhi. Ed entrambi, nel comune sentire, siamo coloro che agiscono nell'esercizio costante dell'esser-ci, l'esercizio che tenta di nominare l'ente, allontanando la paura del non poterci più essere.
È in questa spaziatura che prende corpo e risonanza la phonè nel canto, e l'essere, facendosi canale del canto, in un agire passivo, manifesta la meraviglia e il terrore della scoperta del sé nel/dell'altro.
Nella koinè, comune notorietà, si rivela il thauma, meraviglia terrificante della conoscenza, che frattura, separa e unisce nel comune sentire. 



​​Tra assunto e tentativo
la filosofia come veicolo

L’assunto è una struttura di concetto, un componimento di parole con mire filosofiche, scritto in forma poetica, strumento primario di epochè per l’attuante. L'assunto è un'occhio che guarda dentro e genera intuizioni eidetiche, essenze primarie che prendono corpo dapprima in immagini dinamiche le quali, mediante l'espediente del tentativo, in un secondo momento, vengono gettate nel mondo "alla mano".
Ciò significa che, attraverso la parola, che qui tenta di prendere corpo, o di riprendere senso, per l’essere e per l’esser-ci, tale assunto serve a definire una dinamica sulla quale si pone il focus, tentando di mettere fuori circuito ogni conoscenza ad esso associabile. 
L’attuante, attraverso questo processo di autocoscienza, dapprima mette tra parentesi, con un’epochè generale la conoscenza del mondo alla mano, sospendendo le prese di posizione rispetto all’essere e al non essere del mondo; tale epochè esclude da essa l’io che la opera, affermando l’esistenza di un in-essere pronto all’atto della gettatezza di presenza. È qui che l’atto del dubitare inizia a prendere senso mirando ad un’azione di auto-affermazione del soggetto. Tentando di dubitare dell’indubitabile. 

​In secondo luogo viene attuata un’epoché sul concetto preso in esame; in questo caso per TDD_una pratica collettiva, tutti gli assunti operano una teoretica sulla questione della presenza, sul punto limite tra presenza e crisi di presenza o presenza in-essere. 
L’assunto o tesi, prova a sostenersi attraverso il linguaggio scritto.
Il tentativo, momento successivo all’assunto, è ciò che può far venir meno l’assunto, mancarlo o farlo fallire aprendo molteplici possibilità: gli assetti ipotetici.

Il tentativo getta l’attuante nell’azione poetica che attraverso principi di affinità e somiglianza tenta l’assunto nel reale, confrontandosi con l’esperienza del materiale, degli stress fisici subiti da esso, dell’usura, del vissuto. Il tentativo coinvolge l’attuante in un esercizio performativo nel quale ogni gesto e composizione sono volte a rivolvere/rivelare la tesi, la quale ha bisogno di costanti giustificazioni. 

Cosa lega l’assunto al tentativo? Una relazione non mimetica, non metaforica o simbolica, ma più precisamente un’analogia indiretta, una corrispondenza di somiglianza e affinità tra la parola e il materiale. Si sviluppa in modo organico un approccio fenomenologico con il mondo nel quale è ciò che passa tra il soggetto e l’oggetto che crea il senso, in quel legame noematico e sensibile che centra il soggetto nel suo decentrarsi. È nell’atto di somiglianza che si sviluppa una convergenza comune, è nello spostamento o apparente allontanamento poetico che si attua una relazione profondamente parergonale, nella quale tale velatura delinea maggiormente le forme.
L'analogia indica un rapporto di somiglianza tra due enti, tale che dall'uguaglianza di alcuni loro aspetti particolari si possa risalire ad una loro generale affinità o corrispondenza, anche nel complesso degli elementi che li caratterizzano.
L’opus visivo e performativo che va a strutturarsi nel tentativo costruisce una forma intensiva di ermeneutica dell’immagine di somiglianza, nella quale l’apparire e l’apparenza coincidono, senza ritiro.
Tale rivelazione di somiglianza avviene tra la parola e il materiale e tra gli attuanti, che in una relazione/tandem sviluppano un processo comune, rendendosi ospitanti l’uno dell’altro nella somiglianza del noto, nella condivisione di conoscenza e nella gettatezza del mondo. La fenomenalità, nel velo della sua evidenza di dato, è la modalità con cui accade la coesistenza tra l’uno l’altro e il terzo, nel per-tutti. L’incontro, tra gli attuanti, come tra il tentativo e l’assunto, assume il carattere di una prossimità. Nella prossimità e nella condivisione il momento performativo diviene la spaziatura di una commozione.





​Il lavoro dell’attuante

Il processo inizia nel momento in cui viene scritto l’assunto, dopo l’epoché, l’azione. Il dispositivo che rende possibile l’azione muta nel tempo, nella sua instabilità, tendendo ad un organico collasso; i materiali, portati all’estremo stress, sono sorretti da strutture con una stabilità minima tenuta al suo punto limite, pochi elastici, pinze o piccoli amalgami di cera assicurano una statica momentanea. L’attuante sa che ogni volta che ripeterà la partitura dovrà stare più attento nell’utilizzo del dispositivo, ciò aumenterà la sua disposizione all’attenzione all’altro da sè, al dato di esperienza e alla condivisione dello spazio, fisico e ontologico, con l’altro: una coesistenza delicata.
La fragilità di cui è costituito l’assetto ipotetico che attende l’azione, è analoga alla fragilità del processo dell’attuante. Fra l’azione e l’attuante si frappone il dispositivo, il quale rispecchia, nelle sue fattezze fisiche il processo interiore di coloro che compiono l’atto; materiale e atti si rimandano in un continuo rimbalzo di affinità e similitudini. Decentramenti del soggetto che rendono vigile l’attuante nel suo fare.
La tecnica, performativa/visiva, diviene veicolo per un processo sottile di trasformazione nel quale l’obiettivo è un tentativo di presenza, appercezione e autocoscienza che ha per contenuto l’assento stesso. La tecnica diviene lo schermo difensivo attraverso il quale potersi denudare di fronte all’altro/agli altri, in un processo orizzontale dove il giudizio è sospeso e le conoscenze assodate sono messe fuori circuito. L’attuante nell’azione non è il soggetto, ma colui che permette che avvenga la situazione cercata nell’assunto, che fa “reagire” i materiali i quali con le loro qualità fisiche, divengono soggetti. Decentrando se stesso e concentrandosi su altro, l’attuante si distrae da sé per ritrovarsi, in una partitura d’azione puntuale dove non c’è spazio per la disattenzione dal senso del gesto e dal coordinamento con gli altri per tentare l’obiettivo comune: provare a testare l’assunto.
L’assunto e l’azione con i quali l’attuante si fa schermo di sé, permettono l’attivazione del processo che altrimenti non potrebbe venire ad essere.





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